19 marzo, 2024

L’uomo di Tollund

L’uomo di Tollund

L’8 Maggio 1950 alcuni operai impegnati a scavare torba nella regione paludosa di Tollund rinvennero fortuitamente la salma di un uomo il cui impressionante stato di conservazione e la vivacità dei tratti somatici fecero loro pensare ad una vittima di un delitto recente tanto da avvertire immediatamente le autorità giudiziarie.
Fu tuttavia presto evidente la antichità del cadavere così ben conservato all’interno degli strati di torba che ne avevano presentato l’integrità, ed una successiva indagine osteologica non ebbe difficoltà a farne risalire il decesso all’incirca al primo secolo a.C., nel pieno dell’età del ferro, epoca a cui risalgono pressappoco i circa 1.300 corpi che le paludi dello Jutland hanno finora restituito. L’individuo, di sesso maschile e di età adulta, giace sul fianco destro, con le gambe lievemente piegate ed è vestito esclusivamente da una cintura e  da un cappuccio di cuoio. La barba rasata e i capelli corti incorniciano un volto dalla mimica perfettamente intatta, serenamente adagiato in quello che potrebbe essere uno stato di profondo torpore, mentre al collo è ancora visibile lo strumento con cui fu giustiziato: una corda da impiccagione o da strangolamento. Successive e più approfondite indagini di paleopatologia condotte sul contenuto dello stomaco e dell’apparato digerente hanno contribuito a fornire nuovi elementi agli studiosi che sono concordi nel collocare la morte dell’uomo verso la fine dell’inverno o all’inizio della primavera: nel tritello di cereali che costituì l’ultimo pasto del malcapitato, infatti, accanto ai resti di tredici piante tra cui orzo, avena e miglio, ranuncolo ed erba leporina, non compaiono i frutti o le bacche dell’estate e dell’autunno.
Le circostanze che condussero all’esecuzione dell’uomo di Tollund non possono essere, ovviamente, accertate con sicurezza, ma esistono buone possibilità di fornire ipotesi più che attendibili.
Tacito (Germ. XII), nel narrare delle pene più comuni inflitte in giudizio tra i Germani così si esprime: …Proditores et transfugas arboribus sospendunt, ignavos et imbelles et corpore infames caeno ac palude iniecta insuper crate mergunt”. (“appiccano agli alberi i traditori e i disertori, i codardi, gli ignavi, i peccatori contro natura affogano nel fango delle paludi, gettandovi sopra graticci).

Nell’esecuzione dell’uomo di Tollund assistiamo appunto, almeno apparentemente, alla combinazione di queste due

Immagine acquisita dal web

pene, che Tacito, da buon romano, vede connesse esclusivamente con l’esecuzione giudiziaria e ritiene peraltro motivate da una sorta di logica interna ( o- se si vuole- da una sorta di legge del contrappasso): così, infatti, prosegue il passo succitato: “diversitas supplicii illuc respicit, tamquam scelera ostendi oporteat dum puniuntur, flagitia ascondi”. (“la diversità del castigo si ispira a questo loro pensiero, che i delitti debbono punirsi alla luce del sole, le vergogne occultarsi.”).

La motivazione della metodologia dell’esecuzione, però, risiede nel suo essere parte di un culto divino e di un cerimoniale ben preciso, come Tacito stesso mostra di comprendere nel capitolo XXXIX a proposito dei Semnoni e del macabro rito che si svolge nella loro selva, ammettendo la natura rituale e sacrificale dell’uccisione del malcapitato. Procopio (Bell. Goth. II, 14-15) conferma l’impiego di prigionieri come vittime sacrificali presso le popolazioni di stirpe gota.

Le saghe nordiche, però, indicano chiaramente che le vittime sacrificali non erano reclutate solamente tra delinquenti comuni e prigionieri di guerra: era spesso la stessa divinità dedicataria dell’offerta ad indicare l’individuo da lui preferito e spesso la scelta cadeva sui più nobili guerrieri se non addirittura sullo stesso capo tribù. Solo in epoca più tarda, quando il sacrificio stava perdendo gradatamente di importanza, le vittime furono in massima parte condannati a morte per crimini di natura sociale o ostaggi di guerra.
La metodica dell’omicidio sacrificale, dunque, appare, in ultima analisi, necessariamente connessa con un’offerta della vittima alla divinità tramite un rituale dalle regole rigidamente prestabilite. L’impiccagione, ad esempio, conduce chiaramente al culto di Odino che è il “Dio degli impiccati”, il “signore della forca” o, ancora più semplicemente, Hangi, l'”impiccato”. avendo lui stesso – come è narrato nell’Hávamál (138-145)- penzolato dalla forca per nove giorni e nove notti per acquisire la sapienza runica. Pur essendo sovrano di tutti i defunti, allora, Odino usa intrattenersi presso le forche e colloquiare con gli impiccati che, in modo più o meno spontaneo, gli comunicano la sapienza dei morti che lui, da immortale, non può sperimentare personalmente fino all’apocalisse di Ragnarök. E’ logico dunque, come testimoniano diverse saghe, che le vittime sacrificali destinate ad Odino subiscano lo stesso trattamento, anche se non si deve credere che l’impiccagione fosse l’unico rituale ammesso per il sacrificio: secondo il racconto di Adamo di Brema, nel tempio di Uppsala le vittime venivano lasciate penzolare dai rami degli alberi che circondavano il santuario oppure venivano annegate nel pozzo sacro e abbiamo notizie di vittime lasciate bruciare vive nelle loro case. Alcune delle salme venute recentemente alla luce dalle paludi presentano una ferita al costato che da un lato richiama ancora più da vicino l’episodio del mito di Odino appena citato (anche il Dio si ferì con la sua stessa lancia mentre penzolava dal'”albero senza radici”), dall’altro può far supporre che le vittime fossero prima impiccate e ferite con la lancia e solo in un secondo tempo affogate nelle paludi: proprio ciò che sembra sia accaduto all’uomo di Tollund.

                                                                                                                             (30/08/2001 Filippo Liuti)

Articolo postato da Úlfgaldr il 10 aprile 2003 sul vecchio sito www.laviadelnord.net , appartenente all’allora Associazione Vento del Nord con sede in Valle d’Aosta, il cui presidente e responsabile era lo stesso Úlfgaldr (Massimo A. Nobili)                                                                      




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